Newsletter Futura - Se guardo il cielo | Corriere.it

2022-07-30 11:41:00 By : Mr. Peter Parker

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vette La Marmolada, papà, e ioStefania Chiale

stelle Ho imparato a guardare le stelleIvana Castoldi

Chi fa meditazione insegna: per togliersi dalla testa i pensieri bisogna, qualche volta, immaginarli come tanti piccoli mattoni. C'è il mattoncino del lavoro che scricchiola, c'è quello di un amore senza benzina, quello di un papà che non sta bene. Togliersi - almeno solo alla sera, prima di dormire - uno o due di questi mattoncini fa sentire meglio. Guardiamo il cielo e decostruiamo le ansie. L'estate ci chiama. Siamo la redazione di Futura. Scriveteci: Davide (dacasati@rcs.it), Renato (rbenedetto@rcs.it), Andrea Federica (andreaf.decesco@gmail.com) e Roberta (rscorranese@rcs.it).

La mia prima volta sulla Marmolada è stata nel 1996. Mi ci portò papà, che amava la montagna più di qualsiasi altra cosa. Avevo nove anni. Per me la montagna erano le camminate d'estate e le sciate d'inverno. A un'ora di auto da casa. Come una preghiera: salivamo quasi tutte le settimane dell'anno. Non potevamo farne a meno, lui non poteva farne a meno. Da bambini negli anni Novanta non era facile amare quel freddo che passava attraverso indumenti da sci non ancora così termici, la calzamaglia che pizzicava le gambe sotto la tuta, gli scarponi duri come la roccia. Poi però tutto passava: appuntamento alla seggiovia con i compagni di sempre, 2, 4, 6, 8 bambini al seguito di papà sempre alla guida, gli altri genitori dietro a chiudere la fila. Pista, fuori pista, addirittura un «lunapark» avevamo: era un passaggio laterale al principale, tra gli abeti, sui Monti della Luna, centinaia di metri fatti di gobbe e gobbette continue. Papà era bravissimo: con uno slalom perfetto le accarezzava scivolando a destra e sinistra, noi bambini le prendevamo di petto saltandoci sopra, sempre più in alto. D'estate la montagna era fatica e bellezza, il paesaggio che cambia salendo, dal verde acceso del bosco al grigio e bianco della pietraia, la cima, l'orizzonte che si apre, il tappeto di nuvole sotto i piedi e non sopra, il panino con prosciutto cotto e maionese (lo stesso che tornava ai bordi delle piste d'inverno, insieme ai mandarini), gli scarponcini impolverati, il laghetto ad alta quota, i rami trovati a bordo sentiero e usati come racchette, il sole caldo insieme al vento fresco, la pelle che sa di aria alta e rarefatta e che tiene questo odore una volta tornati a valle. Non te lo vuoi lavare via. La prima volta sulla Marmolada iniziò con l'arrivo a Malga Ciapela. Una funivia lunghissima e sospesa tra le rocce sale su, sempre più su, pare schiantarsi contro la pietra e invece entra nel varco. Si aggancia. Passa oltre, ultimo tratto: Punta Rocca. In 12 minuti si va dai 1.450 ai 3.265 metri. Qui si apre quello che solo la parola «meraviglia» e un senso del sacro pure per chi non crede possono descrivere. Ci si ritrova affacciati sulla vetta più alta delle Dolomiti, Punta Penìa (3.343 m), e su un panorama di cime a 360 gradi, alla stessa altezza a cui volano le aquile. Nove anni fa ci sono tornata per la prima volta dopo quel battesimo sulla «Marmo»: senza papà, sentendolo vicinissimo e provando quella stessa sensazione di benessere che t'investe quasi con violenza e rispetto per qualcosa di così maestoso e perfetto. Ogni anno devo tornarci: salgo veloce (con scarponi e sci perché poi si scende la lunga pista nera, una delle più belle al mondo per quanto mi riguarda), in silenzio perché sono emozionata: so quello che mi aspetta. Arrivo all'ultimo tratto, Punta Rocca. Guardo dritto e respiro, mi lascio inondare da quella sensazione e sempre, ogni volta, mi emoziono: per papà, che mi ha insegnato a rispettare la montagna, a godere di quello spettacolo che nessun altro posto sa dare, ad amare la fatica e la conquista, a pensare che siamo puntini in qualcosa di enorme e anche incomprensibile, che siamo di passaggio. Penso a tutto questo da giorni, sapendo che quegli amanti della montagna cercavano esattamente quella sensazione e invece sono stati inghiottiti dal ghiaccio e dalla roccia. La Marmolada da adesso sarà anche questo, per tutti. Un passaggio che si è cristallizzato per sempre prima di raggiungere la cima.

La prima volta che ho guardato il cielo stellato - e, per guardare, intendo: soffermarmi a contemplarne la bellezza e immergermi nella profondità del cosmo - ero praticamente già adulta. L'adolescente che ero stata non apprezzava le romanticherie e si vantava di tenere sempre i piedi ben piantati sulla terra. Mi facevano sorridere le mie amiche che, abbracciate al loro innamorato di turno, si scioglievano di fronte a un tramonto, o per l'appunto di fronte a un cielo trapuntato di stelle, come fosse un obbligo a cui assolvere, per certificare quello stato di grazia e di beatitudine che comunemente chiamiamo amore. Era così che la pensavo allora. O almeno, mi pareva. Eppure, da liceale, quanto ho amato Leopardi, Virgilio e i lirici greci… Evidentemente, c'era un'altra anima in me che mi ostinavo a non voler riconoscere. Il ragazzo con cui uscivo all'epoca dei miei diciott'anni si lasciava trascinare di buon grado ai cineforum, alle camminate in montagna, alle mostre e alle uscite con gli amici, ma, nel fondo, era più che altro un sentimentale, innamorato dell'amore. Lui, che come me prediligeva gli studi classici, mi recitava ispirato i versi di Catullo: «dammi mille baci, e ancora cento…»; io ridevo divertita e lo prendevo affettuosamente in giro. Lui, altrettanto bonariamente, mi sgridava spesso per il mio inarrestabile attivismo, per l'eccesso di impegno sociale e culturale, che - così diceva - mi distoglievano da una dimensione più intimistica, decisamente romantica, dell'amore. Il suo ritornello era: «Non sei capace di guardare le stelle…». Io non capivo, o non volevo capire. Adesso so che aveva ragione. Gli volevo bene, ma probabilmente non lo amavo abbastanza; oppure l'inesperienza mi ha confuso. Ero troppo presa dallo scenario di un futuro che mi si apriva davanti con le sue mille promesse; forse, ero ingenuamente attratta dai suoi miraggi, dalle sue chimere. Non avevo tempo da investire nella luna e nelle stelle; non mi appassionava neppure l'astronomia. Avevo fretta di non lasciarmi sfuggire le occasioni più propizie per esprimere al meglio quelle che credevo fossero le mie aspirazioni, spostandole sempre più in avanti nel tempo. Non sapevo ancora che la vita, più che concedere, sottrae. I momenti preziosi di intesa e di condivisione con chi ci ama non andrebbero mai sprecati; andrebbero assaporati e custoditi con cura nella memoria del cuore. Quando lui è morto, ci eravamo lasciati ormai da molto tempo. Era tornato a vivere con la famiglia nella sua amata isola che profumava di zagare al tramonto, dalle cui sponde - diceva - con il buio della notte si potevano vedere le stelle brillare, luminose come in nessun altro luogo della terra. Ancora oggi che con gli anni sono diventata più saggia e sorrido della mia ingenuità di ragazza, non posso contemplare il cielo stellato senza ricordare le sue parole, su cui ho riflettuto molto, mio malgrado o intenzionalmente. Negli anni giovanili, spesso, la fretta di vivere e di trovare il nostro definitivo - illusi che siamo! - ruolo nel mondo, ci tradisce. Trascuriamo momenti preziosi, brevi sprazzi di sereno, a volte di intenso appagamento, per rincorrere qualcosa che, alla fine, potrebbe rivelarsi irraggiungibile. Ma, forse, così deve essere, così è fatta la vita… una partita che non è mai a costo zero. Del resto, chi di noi può affermare con certezza di non avere lasciato indietro nulla? Di non avere rimpianti, di non avere fatto scelte avventate o, addirittura, sbagliate? Però, con gli anni possiamo imparare che, al netto di errori e delusioni, ci rimane la capacità di non perdere il contatto con noi stessi e con il mondo che ci circonda. Un mondo che è fatto di persone da amare e da cui lasciarsi amare; è fatto di bellezza e di quiete che ci nutrono e ci consolano. Abbiamo cieli stellati per orientarci nel cammino, montagne rosa che ci richiamano in vetta, boschi di abeti sempreverdi anche quando la natura riposa nel cuore dell'inverno. E abbiamo albe e tramonti da contemplare abbracciati a qualcuno. Che altro ci manca? Ivana Castoldi è in libreria con «Il linguaggio del silenzio» (Feltrinelli)